Di ombre e biblioteche: Borges e il Poema de los dones

di Laura Ragone

Nella sua labirintica produzione, Jorge Luis Borges (1899-1986) ha riservato un posto d’onore alle biblioteche, eleggendone addirittura una — nello specifico quella di Babele — a immagine dell’Universo in uno dei racconti raccolti nel volume Finzioni (per l’appunto La biblioteca di Babele).

Del resto si trattava di un’istituzione che il padre della letteratura fantastica argentina aveva molto frequentato anche professionalmente. Borges, infatti, non solo aveva lavorato — tra il ’37 e il ’46 — in una biblioteca comunale di Buenos Aires (la Miguel Cané, nel quartiere Boedo, tuttora esistente), ma nel 1955 fu anche nominato direttore della Biblioteca Nazionale Argentina, carica che ricoprì per quasi vent’anni.

Proprio da quest’ultimo evento trae ispirazione la Poesia dei doni: la nomina a direttore di Borges fu infatti contemporanea alla perdita di quel poco di vista che gli restava. In queste dieci quartine di endecasillabi dedicate a María Esther Vázquez (giornalista e scrittrice, amica e collaboratrice dell’autore), Borges commenta con ironia — tutto sommato neanche troppo amara — il caso per cui uno che si immaginava il Paradiso “sotto le vesti di una biblioteca” si ritrova a esserne a capo proprio ora che è avvolto nell’ombra.

Nella poesia tornano tanti dei temi cari all’argentino: oltre agli amatissimi libri, ritroviamo la classicità, il rispecchiamento, il doppio — qui impersonato da Paul-François Groussac (1848-1929), suo illustre predecessore alla Biblioteca Nazionale, che pure era diventato cieco durante il suo mandato.

Poesia dei doni

A María Esther Vázquez

Non si riduca a lacrima o rimbrotto
il riconoscimento alla maestria
di Dio, che con magnifica ironia
a me ha donato insieme libri e notte.

Di una città di libri ha messo a capo
degli occhi senza luce, in grado solo
di leggere in sognate biblioteche
gli illogici paragrafi concessi

dalle albe al loro zelo. Invano il giorno
prodiga loro i suoi libri infiniti,
oscuri proprio come i manoscritti
che andarono perduti ad Alessandria.

Di fame e sete (in una storia greca)
muore un re tra fontane e tra giardini;
io vagando mi affanno sui confini
di una profonda biblioteca cieca.

Enciclopedie, mappe, l’Oriente
e l’Occidente, ere, dinastie
simboli, cosmi e cosmogonie
mi offrono i muri, tutto inutilmente.

Lento nell’ombra, la penombra vuota
esploro col bastone malsicuro,
io, che mi immaginavo il Paradiso
sotto le vesti di una biblioteca.

Qualcosa, che di certo non ha nome
caso, regolerà queste vicende;
già un altro ha ricevuto in altre fosche
sere sia i molti libri che quest’ombra.

Errando per le lente gallerie
sento a volte con vago orrore sacro
che sono l’altro, il morto, che avrà mosso
gli stessi passi negli stessi giorni.

Chi scrive, tra noi due, questa poesia
di un io plurale e di una sola ombra?
Che cosa importa il nome a cui rispondo
se l’anatema è unico e indiviso?

Groussac o Borges, guardo questo amato
mondo che si deforma e che si spegne
in una cenere pallida e vaga
così simile al sogno e all’oblio.

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